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Testimonianza di Mariapia Bonanate

Venerdì pomeriggio
Molti di voi c'erano due anni fa quando io sono venuta qui a parlare di quello che sto vivendo. Avevo una paura folle, avevo paura, Elvira, perché quando si vive la sofferenza in situazioni estreme si passa da momenti di paura a momenti di speranza. Ma quando poi esci dal tuo guscio, da quella stanza dove mio marito da sette anni non parla, non si muove, apre solo gli occhi, hai paura di parlare di quel mistero di cui non c’è nessuna spiegazione se non che non ci appartiene ma dobbiamo accettare. Mi ricordo che solo la mano di Elvira, come adesso, due anni fa mi ha dato la forza di parlarvi.
Io ho vicino alla mia scrivania la fotografia di Elvira che abbraccia un bambino e tutte le volte che passo davanti a questa fotografia, sapete a che cosa penso? A due cose: uno, a Elvira che balla su questo palco coi bambini attorno, come fece due anni fa; due, che la vita è bella, come ho raccontato nel libro che è uscito in questi giorni dove racconto la mia esperienza, in cui c’è un capitolo intitolato “La vita è bella”, perché me l’ha insegnato Madre Elvira: la vita è bella. La vita è bella perché ci sono i colori, i colori delle vostre maglie, dei vestiti delle suore e delle ragazze che hanno ballato qui; la vita è bella perché c’è quell’azzurro là, perché ci sono gli alberi, perché ci vogliamo bene.
Io sono stata spesso nei miei viaggi nelle missioni, in terre dove erano avvenute quelle scene di cui ha parlato Andrea. Fra una settimana a quest’ora - pregate per me - sarò in Uganda, una terra molto difficile dove milioni di persone sono morte durante quarant’anni di guerra. Vado lì per fare forse un libro, pregate anche voi che riesca a farlo, su questi milioni di persone di cui nessuno sa niente. Quindi quando Andrea parlava ho sentito come nel dolore più profondo, più drammatico, nella sofferenza, in quello che ci capita spesso in modo così estremo da dire: “Da qui non esco”, sempre poi arriva una luce, anche dovessimo morire in quel momento. Una luce che riesce a mandare via il buio, che ci dà la forza di dire quello che diceva la ragazza croata, Doris: “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”. Per me ci sono due frasi fondamentali del Vangelo. La prima è il discorso delle Beatitudini, dello spogliarsi, dell’essere senza nessun privilegio. Voi tutti lo sapete come ci si sente quando non si ha più niente, però di lì si ricomincia. L’altra è quella di volere così bene agli altri da dimenticare noi stessi. In realtà poi noi stessi diventiamo così pieni di questo dono d’amore da cambiare tutto.
Siamo amiche io e Elvira da tanti anni. Le prime volte che veniva a casa mia mangiavamo in cucina con il risotto che mio marito faceva, questo mio marito che adesso, da sette anni, vive nel silenzio che parla. Abbiamo fatto tante cose insieme io e Elvira. Io mi ricordo sempre, Elvira, quando tu nelle cucine del Mauriziano - forse molti di voi lo sanno - nella sua umiltà profonda che la preparava alla grandezza delle opere a cui Dio la chiamava, lavava i pentoloni, come quello che c’era lì poco fa, e guardava le finestrelle che c’erano sui marciapiedi per vedere i tacchi delle scarpe che passavano, quegli degli uomini e quelle delle donne. E io ho pensato che non lo sapeva ma stava preparandosi a tutti i passi che lei e la sua Comunità avrebbero fatto nel mondo, in tutte le nazioni. Io che ho visto crescere quest’opera se non mi pizzico così credo di sognare, perché questa invasione delle vostre comunità, questa vostra presenza miracolosa che arriva da una suora che lavava le pentole e che continuava a mettere le zoccole, ragazzi, più miracolo di così! Non c’è bisogno di andare a Lourdes! Ce l’abbiamo.
Io vado poco ormai a parlare in pubblico, poi voi qui siete così tanti che mi fa impressione, ma tanto ho la sua mano. Però qui sono venuta perché dobbiamo veramente testimoniare a tutti la felicità che può nascere da quei luoghi bui, da quei luoghi che sono spesso infernali. L’altra volta qui disse un sacerdote - non mi ricordo più quale - che Elvira era scesa nell’inferno a cercare i suoi amici. Tu eri scesa nell’inferno, nel buio e li hai portati alla luce.
Voglio dirvi che cosa è successo quando Elvira è venuta a casa mia dopo che ha saputo che il suo amico Danilo – guardate, non pronuncio mai il nome di mio marito per pudore, ma adesso a voi lo affido - era stato colpito da questa specie di coma. È un coma terribile perché lascia la mente lucida, per cui capisce tutto, vede tutto - si chiama “Locked in” - ma non può neanche muovere il mignolo, niente, può solo aprire e chiudere gli occhi e così cerchiamo di comunicare. Comunque Elvira è venuta a trovarlo, è salita per le scale con delle borse di plastica dove c’erano marmellate, pasta, cioccolato, caramelle ed era piena di gioia e veniva in un luogo di sofferenza. Però, grazie anche a quello che io avevo imparato da lei, mi aveva convinta che non è importante tanto parlare ma stare, esserci, stare lì dove ci sono gli altri, ascoltarli, guardarli, abbracciarli.
 Elvira è una suora “sprint”. Le suore, con tutto il rispetto per le suore qui presenti, certe volte sono un pochino “cuffiate”, ma Elvira no, perché lei andava anche sul deltaplano e io, al pensiero di Elvira che volava sul mare, che andava a farsi il bagno, che cantava, che ballava ho detto: “Sarà pure una suora “cuffiata”, ma prima di tutto è una grande donna, è una grande mamma, è una grande amica”. Sale le scale e mi dà tutta questa mercanzia ed è stato come se entrassero tanti colori nella casa e tante musiche. Poi siamo andate di là nella stanza, che è diventata una piccola chiesa, dove c’è questo altare, ed ha abbracciato Danilo. Siccome lui quando apre gli occhi ti guarda come se ti dovesse dire tutto, lei gli ha detto: “Ma Danilo, ma cosa fai in quel letto? Perchè non scendi?”. E io ho capito in quel momento, e ve lo dico e l’ho scritto, che se avessi avuto la fede di Elvira Danilo scendeva da quel letto, ma purtroppo io non sono Elvira. Mi ha fatto comunque vivere un grande momento, perché come ho detto, Danilo non parla ma ti guarda - ti vuole bene, Elvira, vi volete bene - e io ho fatto un passo indietro, perché loro due si sono guardati. Sono passati più di un minuto. Lei lo ha accarezzato, gli ha preso una mano, poi abbiamo pregato insieme e io sono sicura che in quel momento Danilo ha trovato la sua vecchia amica, quella con la quale scherzava quando lui faceva i risotti nella nostra cucina. Poi siamo andate di là nel soggiorno e io ho detto: “Elvira, ma come fai a avere tutta questa fede, che cambia veramente le situazioni e smuove le montagne?”. Lei mi ha guardato un po’ stupita che io le facessi una domanda così. Non si fanno queste domande a Elvira. “Ma io non lo so cos’è la mia fede! La mia fede è servire e vedere Gesù negli altri, è lì: è amare gli altri, è tenerli per mano e non giudicarli, ma amarli, amarli”. E mi ha detto una cosa: “Sai, più di tante parole, di tanti discorsi che tutti fanno, vale un abbraccio, vale stare con una mamma che piange e prenderla per mano, vale di più fare un sorriso”. Questo, per una come me che è un po’ “condannata” a usare tante parole scritte e parlate... Ed è cominciata quell’esperienza nel silenzio che è nato in quella stanza e che tuttora permane, in una situazione incredibile per tutti, medici, persone, amici, dove ogni giorno avviene un miracolo - che non è il miracolo di quella guarigione che onestamente speravo, perché anche se è impossibile che umanamente avvenga, uno ci spera, no, Elvira? Ma è un miracolo forse più grande ancora della guarigione il fatto che attorno a questo letto - e qui ci sono tanti amici e amiche che sono venuti in quella stanza - si è creata una isola di luce, di amore e di serenità; che attorno a quel letto, dove ogni mattina e ogni sera si ricomincia una vita sempre uguale - perché le azioni sono sempre uguali - sono nati tanti momenti di speranza, di comunione.
Io ho una famiglia, ho tre figli, sei nipoti, una famiglia piccolina. Adesso siamo una grande famiglia perché chiunque viene lì da noi diventa partecipe di questa famiglia, anche se poi deve ritornare a casa sua, ma lì dentro quelle stanze si è creata una famiglia ecumenica - perché ognuno ha un po’ la sua religione, è formata da diversi extra-comunitari; internazionale, perché ci sono filippini, rumeni, sudamericani, ci sono anche siciliani! Sapete, non è più un piccolo ospedale ma è una casa dove - senza togliere la sofferenza di certi momenti, soprattutto quando sono sola che guardo Danilo che mi guarda, vorrei capire che cosa mi vuol dire, cerco di capirlo, ma poi adesso non glielo chiedo più perché ci abbracciamo, abbiamo capito che si può parlare con le braccia, con le mani che stringono le mani, con le carezze, coi baci. Ci son dei momenti molto difficili, molto. Però poi ricomincia la festa, la vita è bella. Arrivano i nipoti, arriva un cane terribile che è una specie di “siluro”, arrivano gli amici, a mezzogiorno si mangia insieme, si scherza, ci si racconta la vita, si prega. Pensate che miracolo, in sette anni, quello che poteva essere un buco nero tutto al buio è un buco pieno di luce e in questa luce c’è sempre in me il ricordo di tutte le persone che mi accompagnano e che mi hanno accompagnata, ma fra tutte queste in prima fila c’è Elvira, che mi ha insegnato che prima di parlare bisogna “stare  con”, fermi lì. Noi andiamo, veniamo, ci muoviamo. Certe volte bisogna star fermi, aspettare che gli altri vengano da noi, aspettare che vengano ad abbracciarci, che vengano ad ascoltare, ed ascoltarli. Mi ha insegnato che non si vive per gli altri, ma con gli altri. Sono quelle due paroline che cambiano tutto. Voi andate in missione, vivrete coi bambini, andate in tutte le parti del mondo. Qui a Saluzzo “vivete con”. Allora tutto cambia, allora succedono i miracoli, allora si vede quello che non si vede. Nella stanza dove io vivo con questo mistero, che io dico doloroso e glorioso e gaudioso nello stesso tempo, io ho incominciato a vedere con l’anima, coi sensi, quello che prima non vedevo: ciò che vale, ciò che non vale, quello che è importante, quello che non è importante, come la luce è più importante del buio e bisogna attirarla anche se non c’è e accendere tutte le lampadine che possono illuminare il buio e poi tenersi tutti abbracciati, uniti, come è stato detto su questo palcoscenico.
Oggi c’è tanta solitudine. Io ho una grande fortuna: di aver potuto da questa sofferenza, grazie a Madre Elvira, grazie a tante altre persone, trasformare quella stanza, quell’alloggio in una comunità aperta, con la porta sempre spalancata. Ma quante persone, mogli, mariti, madri, figli, vivono nella solitudine più grande un dramma come il mio! Dobbiamo andarli a cercare là dove nessuno va, come fate voi; andare là dove la gente passa indifferente, nei luoghi più nascosti, perché è là che comincia la vita.
In un unico viaggio in Israele sono andata sulla montagna delle Beatitudini. Salgo su questa montagna, e siccome ero piena della lettura del Vangelo mi guardo attorno e dico: “Ma qui non c’è nessuno!” Era un momento in cui non c’era nessuno e poi ho capito. Sapete dov’erano tutti i protagonisti delle Beatitudini? Erano là nelle stanze dove ci sono gli ammalati, nelle missioni dove ci sono i bambini, in quell’ospedale dove io fra una settimana sarò, dove sono passate migliaia di persone e di bambini. Pensate che la notte in quell’ospedale nel cortile arrivavano ottomila bambini, dai sei anni ai dodici, per non essere rapiti dai villaggi dove venivano i guerriglieri a prenderli per farli diventare bambini-soldato. Oggi è là Dio, Cristo, in tutte queste situazioni e noi, se accettiamo di stare con Lui dove Lui ci chiama, lo scopriamo, come dice Elvira, in queste persone, in queste situazioni.
In quella stanza dove Elvira è stata e dove è venuta più volte - sempre con le borse con dentro le caramelle, la marmellata della Comunità - quando lei stava lì c’era quella sensazione di vivere nella luce, in quella luce che lei ha dato a tanti di voi e che continua a dare con la sola sua presenza, col solo suo sorriso. Anche quando non la vedete, pensatela; anche quando non la sentite, ascoltatela, perché lei è dentro di noi. Ma non per lei, perché Elvira è grande, ma più grande di lei è il Dio col quale abita Elvira. Lei, io, voi, cosa siamo? Delle foglioline piccole piccole; soffia il vento un po’ più forte e puff! Quando sento il vento forte cado per terra, perché tante volte non ce la faccio più a far questo, quest’altro, occuparmi dei nipoti, occuparmi del lavoro; e sento una voce che mi dice: “Ma di che ti preoccupi, ragazza? Tanto ci sono Io che faccio per te”. Quando non ce la fate, diteglielo: “Fai Tu per me”. Questo Elvira lo sa perché, per quanto Elvira sia grande, senza il suo Gesù, senza il suo Dio, senza quel Qualcuno - che io non voglio neanche imporre a nessuno perché Lui è solo una grande presenza - noi non saremmo qui e io che avevo paura di parlarvi non sarei riuscita a parlarvi.

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