Venerdì mattina “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (…)”.
Gesù ha detto queste parole durante l’Ultima Cena; siamo nelle ore che precedono la Passione. E sono ore importanti per ognuno di noi, perché? Perché in quei tre giorni lì, ma soprattutto nell’Ultima Cena, si sintetizza tutta la vita di Gesù. Tutto quello che ha detto, tutto quello che ha fatto, il senso che Lui ha voluto dare nella propria vita, come una lente d’ingrandimento quando è al sole raduna tutti i raggi in un sol punto, vuole arrivare lì: “Io ti dico in questa notte, in questa serata, quello che è stato tutto il significato della mia vita”. Gesù fa questo discorso in un momento intimo, perché è coi suoi amici, con le persone con cui ha condiviso la sua storia, ma anche sofferto. Sa che le cose non vanno bene. È un momento splendido della sua vita, li ha tutti lì con sé, la sua “squadra”; ma anche tragico, perché sa che qualcuno lo tradirà, sa che altri lo lasceranno, sa che altri lo rinnegheranno. Ma ancor prima dell’offesa dice: “Voi siete miei amici”. Il livello più alto che ognuno di noi può dare è quello di dare la vita per i propri amici. Che tipo di amore Gesù urla, va a gridare? Che cosa vuol dire “dare la vita per i propri amici”? Cosa vuol dire dare la vita, amare, portare frutto per Gesù? C’è una bellissima frase che mi colpisce sempre: “Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”. Perché? Perché il fatto di amare e di voler dare la vita nell’esperienza dell’amore ha a che fare con i legami. Noi non diamo la vita ai cani, ai gatti, alle piante; noi diamo la vita alle persone che ci stanno accanto: a quell’uomo e quella donna, a quel figlio, nonno, parente, a quel collega di lavoro, a quella persona che ci è accanto. Quante persone parlano troppo con le piante! Ben venga, ma la vita, il dare la vita è con la persona che vi sta accanto. Nutriamo tutti gli animali possibili su questa terra, ed è bene che si nutrano perché sono creature di Dio, ma io sono chiamato a dare la vita a chi il Signore mi ha messo accanto. Mamma mia, quanto è difficile! Sia in Comunità, sia in casa, sia anche all’interno di un presbiterio, ecc. Tu sei chiamato a dare la vita e amare in un contesto di legami, di relazione. Perché? Perché tu per vivere hai bisogno di relazione, di legame, di non chiuderti. Anche chi è “single” vive di legami. Quante persone, o anche quanti ragazzi giovani pensano, ad esempio, che “l’importante è sposarsi, allora sì che le cose cambiano, allora sì che sono chiamato ad amare”. No! Tu sei fatto per amare già da quando sei alto così in pancia a tua madre. Che delusione quando tu non sei capace ad amare e ti sposi! Che delusione quando tu non sei capace ad amare e ti fai prete! Che delusione quando tu non sei capace ad amare e vivi in una Comunità o fai anche altre scelte! Tutti noi nel nostro DNA, nel nostro “imprinting” abbiamo questa capacità di amare. Essere sposi è una stagione dell’amore, ma quando tu sarai vedovo continuerai ad amare. Oppure blocchi e stacchi la spina? L’ottica di Gesù, del dare la vita, è in un contesto di legami, di relazioni. E allora la diciamo lunga sul modo con cui noi educhiamo gli altri ad amare. A volte l’esperienza dell’amare è quella del “farsi” amare, cioè è l’altro che sempre mi deve dare, io sono al centro, faccio il re della mia vita e gli altri mi devono servire. Non è nell’ottica di Dio, del dare la vita agli amici. Ecco l’importanza di questa capacità di amare, perché dentro la capacità di saper dare la vita, riscopro chi sono, viene la mia identità. Io scopro chi sono nel momento in cui sono capace di dare la vita, di amare fino in fondo, dare tutto. Noi stiamo dando tutto per scoprire chi siamo? Quanti “freni a mano” tirati abbiamo, legati a questo non dare tutto! O perché abbiamo paura, o perché ci vergogniamo, o perché diciamo: “Ma come è possibile dare tutto con quello che ho, con quello che sono, con quello che ho fatto!”. Ma tu OGGI sei chiamato a dare tutto! Perché Gesù non ha dato tutto solo quel giorno quando ha fatto l’Ultima Cena, ma oggi continuamente. L’esperienza dell’adorazione è Gesù che si dà di nuovo tutto, non solo un po’ di tempo fa, ma oggi, adesso, in questo momento, così come noi siamo chiamati a fare. Voi sposi siete dei pazzi a sposarvi! Siete anche dei grandi! Siete dei pazzi a sposarvi perché avete detto davanti a Dio: “Io 24 ore al giorno ti do tutto”. Mamma mia, davanti a Dio! E questo mio “dare tutto” vuole significare quello che tu Signore hai dato a noi. Anche per me prete vale questo ed è un’occasione per capire da voi sposi cosa significa dare tutto, 24 ore al giorno. Anche il nostro corpo è chiamato a dare tutto. Il mio corpo di uomo è chiamato a dare tutto. Il mio corpo di donna è chiamato a dare tutto. Noi dobbiamo recuperare di più e meglio la bellezza del nostro corpo nel saper dare tutto, perché è chiamato ad amare; la bellezza di questo corpo anche con le ferite che si porta. Quanti tatuaggi ci siamo messi? Quanti tatuaggi ricordano un passato? Quanti tatuaggi ricordano dei legami? E dove ti ha portato, cosa è successo? Ma anche col corpo che ti ritrovi, anche col corpo che hai, tu oggi sei chiamato a dare tutto, perché sei chiamato ad amare. Noi forse non ce ne accorgiamo fino in fondo, ma è proprio in questo l’esperienza di cosa vuol dire dare tutto, con quello che abbiamo, con la nostra pochezza. Gesù ci dà un orizzonte dell’amare fino in fondo, perché noi abbiamo bisogno di imparare da Lui. È come imparare una lingua nuova: quando si entra in Comunità è dura imparare l’italiano, sentendo anche le varie Ave Maria in diverse lingue… Se dovessi imparare un’altra lingua, non sarebbe così facile o immediato! Però quando uno ti insegna una lingua nuova occorre avere anche l’umiltà di saper chiedere. “So già tutto, ah sì, ho capito”, e poi dopo due minuti te lo ripetono di nuovo. Bisogna avere umiltà nel saper accogliere e imparare una lingua nuova. Ma qualcuno me la deve insegnare. L’esperienza di Gesù insegna una lingua nuova nel mio imparare ad amare. Ma se io non mi metto in gioco nei miei legami e relazioni, non faccio nulla. Quando noi ci chiudiamo davanti agli altri, iniziamo a calcolare e alla fine Dio si ritira, questo amore diminuisce: “Siccome io ho fatto questo, tu dovresti fare questo e quest’altro”, “L’ho fatto ieri! Ti ho dato già una mano ieri, adesso tocca a te. Te l’ho appena fatto, ma quando mai tu ti muovi di tanto così!”. Vedete come ci si ritira. Non solo nella Comunità, ma anche nella nostra vita, anche nella mia vita di sacerdote, perché siamo chiamati, per essere amici, a portare frutto. Noi non siamo alberi da ombra, siamo alberi da frutto; significa che anche altri possono godere di quello che noi abbiamo portato perché possa crescere, perché in ogni frutto c’è di nuovo un seme, che noi abbiamo accolto dai frutti che abbiamo ricevuto. Allora la domanda è questa: come imparare a dare tutto? Il modello, appunto, è Gesù. Fin dove devo amare nel dare tutto? Fin dove devo amare e fino a che punto io devo amare mia moglie, con quanto è acida in questo momento e in questo periodo? Fino a che punto io devo amare mio marito, che è un brontolone? Quanto devo ancora sopportare chi ho accanto, quel fratello di Comunità? Fin dove devo portare pazienza in questo? È possibile andare avanti sempre così nelle cose che facciamo? Ma se lui non cambia, ma se lei non cambia, come facciamo ad andare avanti? Bisogna per forza che tu ti decida, bisogna per forza che tu ti dia una mossa! Vedete fino a che punto noi siamo chiamati ad amare! Quante domande “l’angelo custode” fa a chi gli è accanto: “Ma non ti svegli ancora? Ma non hai ancora capito? Ma perché sei ancora fermo? Ma quanta pazienza! Mi fa andare in bestia, nelle cose che fa!”. Ma fin dove tu sei chiamato ad amare? È lì che noi ci giochiamo questa Parola di Dio, in quel legame. Gesù si è donato e ha aperto anche l’esperienza della croce, dicendo a noi: “La maniera con cui sei chiamato ad amare è fino a questo punto”. Se io arrivo ad amare con quello che è lo stile, la totalità con cui Gesù ha amato, allora io arrivo a tirare fuori la capacità di amore che Dio ha messo in me. Il Signore ha messo in ognuno di noi una capacità di amore straordinario per dire del Suo Amore, e ognuno ha la sua capacità di amore, ha il suo DNA. È un voler bene a se stessi riconoscere che Dio mi è amico e ha messo in me una capacità di amore da esprimere. Dobbiamo tirar fuori la bellezza che il Signore ha messo in ognuno di noi. Nel matrimonio, io coniuge sono chiamato con Dio a farti tirar fuori quella bellezza originaria che Lui ha messo in te; non sono solo chiamato a bastonarti, a dirti cosa devi fare, cosa non devi fare, quello che potresti fare, che l’hai fatto male, ecc. Tu sei chiamato a benedire, cioè a far emergere la bellezza della tua capacità di amare, tirando fuori la propria originalità. Quanto il peccato, il passato, ci ha chiuso in una non bellezza, in una non originalità nelle cose; ma quanto anche la Comunità mi sta donando la vita, per recuperare quanto di bello ha messo il Signore in me. In tutti! Dio non produce scarti! Dio non produce dei vuoti a perdere, ma tutti abbiamo una bellezza originaria. Gesù ha dato la vita per me e io sono chiamato a darla anche per gli altri e questo fa parte della nostra Pasqua, del nostro morire ma per amore. Questo amore significa sacrificarsi. Dio non ha messo solo il “coltello tra i denti”, ma ha messo una bellezza originaria nell’altro e io sono chiamato a farla venire fuori. Ti sono amico o no se faccio questo? Eh sì, c’è un’amicizia vera. E, caso strano, quando una persona ti vuole bene, quando è un amico vero, accogli anche il rimprovero, accogli anche quello che di negativo ti può dire. La permalosità viene meno proprio perché tu ti senti amato. È proprio vero: nel momento in cui io mi sento amato, accetto quello che tu mi dici, anche se è negativo per la mia vita, ma è l’occasione per crescere. Ecco il motivo per cui occorre anche nei nostri legami, nelle nostre coccole, nei nostri affetti, far venir fuori quanto Dio ti vuole bene, perché tu possa dire: “Sono amato! Sono chiamato a vivere, sono chiamato a dare la vita!”. Nei fidanzati spesso non accade questo. A volte si rischia, anche tra sposi, che non si è amici veri: io sono chiamato solo a prendere da te, non a dare la vita. Tanti matrimoni iniziano a faticare perché già prima si faticava su determinate cose. E non credere che una benedizione in Chiesa ti aggiusti la vita! Non credere di fuggire perché prima o poi le cose saltano fuori, si devono affrontare. Ma è proprio lì, nell’imparare a dare la vita, nell’essere amico fino in fondo, che io riscopro chi sono, e riscopro anche il grande significato dello stare insieme. Amare fino in fondo, dare la vita per essere amico, è prendere su di sé i difetti e i peccati di chi mi è accanto, prendere i limiti di chi mi è accanto, del mio coniuge, della persona che in Comunità è vicina a me. Non più i peccati o i difetti di lui come possibilità di confronto, oppure di scontro, ma come la possibilità di un amore più grande. Capiamo anche il motivo per cui Gesù ha detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Tu riconosci che in quell’esperienza c’è un amore più grande, anche se l’altro non se ne accorge. Quanti silenzi ci sono, quante calme piatte, quante apnee in cui l’altro non riconosce quello che tu stai facendo. Chi ti è accanto non riconosce l’amore grande che tu ci stai mettendo, anzi molto spesso ti rifiuta, ti insulta. Ma è proprio in un’ottica grande che sono chiamato a fare dei gesti grandi. Se io non ho quest’ottica, se non ho la presenza di Dio, come faccio io a fare altrettanto, così come ha detto Gesù? Com’è importante l’adorazione, l’Eucaristia, il sentire una Parola di Dio per esprimere questo grande amore! Se io non mi abbevero a una fonte, dove vado? Rischio di partire e poi mi fermo. È in questa esperienza che io ho l’ottica dell’amicizia vera, perché dietro c’è un amore grande. Gli amici veri hanno un amore grande alle spalle, ma un amore “alla Dio” nelle cose che fanno. Dietro ogni bambino c’è una bellezza, vedi già il volto giovanile, vedi già come diventerà. Anche nell’esperienza di questo amore grande vedi già dove andrà a finire, vedi già cosa costruisce. Dove ci giochiamo questo? Nei legami, in vista dell’unità, e in vista del nostro costruire l’unità. Noi la costruiamo poco. Detto in termini di coppia, costruiamo poco il “noi” di coppia. È cresciuto rispetto a un anno fa il nostro “noi “ di coppia? È cresciuto rispetto a un anno fa il nostro “noi “ di Comunità, nella comunione? Mi rendo conto che in questa crescita io devo accogliere per forza, mi devo scomodare, mi devo fare “in quattro”, ma riconosco i frutti facendo questo: riconosco che tutte le preghiere, tutte le adorazioni, tutte le Eucaristie che faccio sono in vista di questo amore grande da mettere nei fratelli, perché se no rischiamo di pregare ma di non portare frutto là dove siamo. Anche per me prete, rischio di fare adorazioni, ma poi di essere acido, di essere permaloso, “corto” in tante cose. L’esperienza che abbiamo a che fare con Dio deve portare a tradursi nella quotidianità. Forse il discernimento autentico di una vita è se sono capace di dare tutto: è lì il discorso se cresco o meno, se vado verso il dare tutto di me stesso. Dov’è che io mi gioco questo? È nella quotidianità che io mi gioco il rapporto di amicizia con Dio, non solo nelle grandi occasioni. È nella quotidianità che io spero, credo, amo; è oggi, adesso. Qua bisognerebbe già eliminare in partenza alcuni pensieri che ci possono essere nella nostra vita, sia di coppia ma per ognuno di noi. Come se le migliorie possano accadere solo se ci fosse qualcosa che modifica il tragitto: “Se non ci fosse quella persona io mi donerei di più, se non ci fosse quella suocera io amerei di più quest’uomo, questa donna; se non ci fosse quel lavoro come ci vedremmo di più, come ti vorrei più bene; se avessi quel lavoro o se non avessi quel dolorino alla schiena o quel male; se non avessimo quel figlio ci ameremmo di più”. Non è da qui che dobbiamo partire ma è dentro la quotidianità, la realtà normale, che dobbiamo cercare la pienezza del nostro dare tutto. Tanti si torturano nel trovare alternative: “Cambiamo città, andiamo a vivere in un’altra casa, facciamo una vacanza”. Sì, facciamole pure, ma non sono venti giorni di vacanza che ti mettono a posto 345 giorni dell’anno. Sono i 345 giorni dell’anno, della vita vissuta in quell’anno lì che mi fanno riscoprire il significato della mia vacanza. “Ah, se esco dalla Comunità le cose cambiano, so io come aggiustarmi!”. Vivi bene adesso, impariamo ad amare adesso, allora riscopriamo il significato che c’è dopo. Come se la propria vita fosse sempre al futuro. No! attraverso un ideale? No. È nella quotidianità che il Signore ci chiama ad amare fino in fondo, e tutti siamo chiamati al grande amore, tutti. Non c’è nessuna ferita che può innescare la retromarcia dell’amore, anche le ferite che ci portiamo nel passato. È lì che ci giochiamo la nostra vita. Questo ordinario, le cose che facciamo, ha bisogno di nutrirsi tutti i giorni, non solo qualche volta. Una cosa bella di Dio è proprio questa: non si vive di rendita. “Faccio quel pellegrinaggio, faccio quell’esperienza e poi sono a posto”. Sei a posto per quel giorno, perché il giorno dopo ti chiede di nuovo di amare. Con Dio non si vive di rendita ma si vive nel momento presente, ed è proprio bello questo perché ci spinge a non stare fermi, ad aumentare sempre di più, a far crescere questo amore ordinario, sapendo che Gesù nel suo amore ordinario da dove è partito? È partito dal fatto che se dai un bicchiere d’acqua al tuo fratello è già motivo di regno dei cieli; cioè, è proprio nel gesto piccolo, nel gesto concreto, che io mi rivedo. Ma il gesto fatto per amore, fatto nell’ottica del dare tutto: do tutto a te Signore perché l’altro possa capire questo significato. Alcuni “input” come conclusione, che possono forse aiutarci in questo significato del dare tutto per essere amico e per riscoprire che l’amicizia vera comporta un amore grande, fatto del dare tutto. Lo prendo da alcune parole di Gesù: “Come ho fatto io fate anche voi”. Fidati, vai, parti, fai questo in memoria di me, prendi, mangia, questo è il mio corpo. Ma non è l’esperienza di un innamorato? Sei chiamato a dare la vita attraverso il corpo che tu hai. Però l’altro lo deve mangiare questo corpo. Il senso della gioia nel dare il proprio corpo ha un significato enorme e all’interno della gioia c’è un piacere. Se fosse solo piacere la gioia ti manca, anzi si riduce tutto, sei peggio di prima come corpo, ti sembra di essere vuoto dentro, non va, non gira. Ma è proprio nel dare per amore questo corpo che hai la gioia dentro. E questo dare è nella concretezza delle cose che facciamo, delle cose che compiamo. Questo dà un significato alla nostra vita ed è proprio vero che nel dare la vita non si vive solo per le cose positive, ma anche per i suoi aspetti negativi. L’amore di Gesù non fa dei difetti e dei peccati un’occasione di distanza, di accusa, di menefreghismo. Guardate cosa ha detto Gesù al ladrone: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” e Gesù l’ha preso con sé. Anche la ferita è occasione per ricominciare, ma la ferita va donata, non va tenuta dentro. È un amare non nonostante i difetti, ma un amare per i difetti che tu hai. Siamo chiamati allora a far crescere, a far sì che l’altro diventi sempre di più quello che è, a rendere l’altro sempre più bello per quello che è, per quello che fa. In fondo se tu vuoi bene a quella persona, tu lo ricrei, fai una seconda creazione, lo rimetti a nuovo. È l’esperienza di ognuno di noi nel sacramento della confessione: il Signore ci rimette a nuovo nelle cose che facciamo. Siamo chiamati anche a ricreare chi abbiamo accanto attraverso la nostra esperienza, attraverso il nostro dare, ma se non abbiamo un amore più grande che ci precede, che io accolgo, come fai a dare? E l’esperienza dell’adorazione è proprio accogliere questo. Un ultimo pensiero. Gesù a un certo punto ha detto: “Ho sete”, cioè quell’esperienza di un amore dato provoca una sete. Io ho bisogno che tu mi risponda, ho bisogno che in questo soffrire tu mi dia una risposta. A volte l’esperienza di “Ho sete” riecheggia, si fa sentire nei prolungati silenzi con la persona con cui sto accanto. Quando la persona accanto è muta, non si fa sentire. Oppure quando quella persona che mi è accanto sbatte le porte, oppure nelle risposte urlate. È un dire: “Ho sete”, ho sete di questo amore grande che tu non mi stai offrendo; quell’ “Ho sete”che si fa sentire a volte nelle fughe, nelle assenze, oppure nei ritardi, nel non darti delle risposte. Tu continui a avere sete, di questa sete d’amore. A volte possiamo rispondere con l’aceto a chi ti dice: “Ho sete”: cioè ti do solo quello che ti spetta, ti do solo quello che meriti. Invece no, in quell’ “Ho sete”io sono chiamato a volerti bene anche nella mia arsura e l’“Ho sete”noi lo colmiamo solo con quell’acqua che il Signore ci può dare. Io son convinto che un amico vero è un amico di Dio, e più si è amici di Dio più si è amici veri. E nello stesso tempo l’esperienza dell’amicizia vera parte dal fatto che c’è qualcuno che me l’ha insegnata in cosa vuol dire “fino in fondo”. Io spero che molte coppie abbiano il coniuge come amico vero, perché non è detto che il mio coniuge sia un amico vero. Io spero che nelle proprie comunità ci siano degli amici veri, che si costruiscano delle amicizie vere, fondate sulla presenza di Gesù. Anche tra di noi sacerdoti, che ci sia un’amicizia vera, fondata sulla presenza di Gesù, perché quelle amicizie lì alla fine non si scoloriscono; quelle amicizie lì, anche se non ti vedi per un po’ di tempo, ritornano, si riprendono, perché ci sono dei legami. Un legame con Dio dà un carattere di eternità a quello che stiamo compiendo e che stiamo facendo. Allora quel dare tutto è anche nonostante le ferite che abbiamo. A me fa sempre pensare l’esperienza di un Signore risorto, un Dio ferito: la prima cosa che fa con le ferite che ha è quella di mostrarsi di nuovo ai suoi. Il Signore risorto riappare di nuovo ai suoi con le ferite che ha. Questo ti dice un amore grande, questo ti dice cosa significa dare la vita. Anche per noi, con le ferite che abbiamo, il ritornare da coloro che ce le hanno provocate è dire: sono di nuovo con te. Questa è l’esperienza massima del perdono, perché dice di una realtà grande. E forse quelle ferite che io ho sono il segno della tua conversione, sono il motivo per cui tu accogli il fatto che io ti voglio bene. Il Risorto è una persona ferita che si rifà e si ributta e si ridice a coloro che gliele hanno date, queste ferite. Se tu mi hai ferito, e anche molto, il fatto di ritornare di nuovo a te mi costa, con le ferite che tu mi hai dato, ma ti dice l’amore grande che io ho nei tuoi confronti ed è motivo di conversione tua: vale la pena. Coppie, sposi: ritornare con le proprie ferite dal coniuge per dirti quanto vali per me, per dirti quanto amore grande io ho intenzione di darti, di farti capire, di farti percepire. Solo così abbiamo un incontro, solo così come sposi dite di una realtà di Dio, non dite solo: “Sopportiamoci per una vita”, non dite solo: “Guarda, dobbiamo fare la gara alla resistenza così almeno siamo a posto”. Si deve dire in ogni coppia: “Qui si è visto Dio”, e avete un sacramento che dice questo. Allora anche noi come sacerdoti, oppure come ragazzi, siamo chiamati ad allenarci per questo, per ringraziare poi il Signore con la strada che sceglieremo nelle cose che saremo chiamati a fare. Ma non smetteremo mai di amare, non smetteremo mai di avere questo atteggiamento per ritrovare noi stessi. Io dico solo: ringraziamo che c’è una presenza di Dio nella nostra vita, ringraziamo anche dei nostri cammini, ringraziamo anche delle fatiche che stiamo facendo nell’accogliere questa presenza, perché nel momento in cui tu ringrazi, significa che hai nel cuore quella presenza; nel momento in cui non dici più grazie, quella presenza lì non c’è più. Forse è proprio una bella occasione per dire quanto il Signore ha fatto per noi e ringraziarlo per quello che continuerà a fare.
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